Allegri (una volta)

Roberto Beccantini12 febbraio 2024

Ha perso, la Juventus, come spesso vinceva: punita da un errore (di Al’ex Sandro), da uno dei rari tiri degli avversari (Giannetti Lautaro, nomen omen) e da un catenaccione che Cioffi ha «rubacchiato» ad Allegri (una volta). Per la cronaca, e per la storia, l’Udinese, squadra molto fisica, aveva battuto addirittura il Milan a San Siro e piano, dunque, con le battute salaci e fallaci. Walace, un gigante; Samardzic, pochino ma un sinistro birichino; il resto, tutti indietro appassionatamente.

Il pari con l’Empoli ha spento la luce. Passi arrendersi al Meazza, l’Inter è l’Inter, ma insomma: scambiare il 70% di possesso palla per reazione feroce, uhm, lasciamolo ai maniaci. Non sono mancate le occasioni – una con Cambiaso, due con Milik; l’ultima, agli sgoccioli, di Yildiz – è mancato tutto il resto. La velocità, la passione, il dribbling, la mira. E pure un pizzico di fortuna: penso alla traiettoria di Chiesa, di un pelo fuori, che ha invalidato il pari di Milik.

Non ho capito la formazione del Feticista: perché Al’ex Sandro; perché non subito il turco – anche se ogni volta che entra non possono chiedergli miracoli – perché a un certo punto fuori Chiesa, finalmente titolare e tra i rari fiammiferi che accendevano quei radi falò fumanti (lui, e Cambiaso); perché, al limite, non Kostic. Centrocampo piatto, Locatelli di un grigiore desertico, McKennie ignorato per un tempo, Rabiot in versione bandolero stanco; e poi, naturalmente, i piedi. Quei piedi, in generale. Un disastro. Ha chiuso, la Signorinella, con Iling-Junior, Nicolussi-Caviglia e addirittura Cerri, un pivottino di 20 anni. Non esattamente la panchina di Inzaghi e Pioli.

Certo, l’assenza di Vlahovic. Ma un punto in tre partite, uno solo fra Empoli e Udinese. Con tutto il dispetto, Allegri l’aveva sempre detto: occhio alla quinta. Birbante di un livornese.

La voglia e la forza

Roberto Beccantini10 febbraio 2024

Chi guarda il dito: visto? sono scesi subito dal pullman ma hanno perso lo stesso. Chi guarda la luna: sì, hanno perso, ma almeno hanno tirato e segnato, mica come la Vecchia di Allegri, tutta languori e tremori. Roma due Inter quattro ronza attorno a questi estremi, che diventeranno cerini e ciocchi per fior di dibattiti. Se interessa, viva i lunaioli.

La Roma di De Rossi non è più la Roma di Mourinho: con le sue risorse (pressing, velocità, coraggio) e con i suoi limiti (di tenuta, di ampiezza). In due minuti, già due tiri: di El Shaarawy, pizzicato da Sommer, e di Pellegrini, appena alto. C’era Farris, in panca, al posto dello squalificato Inzaghino: ma non penso che fosse questo il problema. Il problema era la Roma. Che però s’inchinava a una capocciata spuria di Acerbi, con Thuram in fuorigioco accanto a Rui Patricio, posizione ballerina e birichina che, se agitava il Var, non commuoveva Guida.

Leonina, la reazione della Lupa. Testa di Mancini su parabola di Pellegrini e contropiede fulminante inciso dal Faraone sui legni della porta. La notizia era la normalità di Calhanoglu. La pioggia batteva furiosa, indispettita, forse, dal poco di Dybala e dal pochissimo di Lukaku. In avvio di ripresa, l’Inter cambiava marcia. Adesso sì che Capitan Futuro (e allenator presente) era costretto a un simil catenaccio. Pareggiava Thuram, su cross dalla destra; il sorpasso lo firmava la ditta Angelino-Thuram, non lontano dal timbro Gatti-Thuram nel derby d’Italia, su cross da sinistra. A proposito di «larghe» intese.

Un palo di Pavard (e Pécuchet, parafrasi di Flaubert) incorniciava la giostra di una partita croccante e cavalleresca. Lukaku – sì, lui – si mangiava due gol, a conferma che non sempre i divorzi, come le ciambelle, riescono col buco. La transizione di Bastoni, ad avversari ormai scollegati, siglava un verdetto persin feroce. Morale: la voglia dei vinti, la forza dei vincitori. Non è poco.

La differenza

Roberto Beccantini4 febbraio 2024

L’Inter è più forte e anche per questo – al di là dell’autogol di Gatti – ha vinto. Di corto muso, a dar retta allo scarto; molto di più, se consideriamo il palo esterno di Calhanoglu – the best, con Pavard e Mkhitaryan – e le due paratone di Szczesny su Barella e Arnautovic. Inzaghi è il più moderno degli allenatori antichi; Allegri, il più antico degli allenatori moderni. Mai che faccia la prima mossa, contro certi avversari; Inzaghino, lui, una volta in vantaggio magari si rannicchia un po’ troppo, ma anche perché dispone di transizioni e contropiedi al curaro.

Direte: gran partenza della capolista, d’accordo, ma se sul coast to coast di McKennie Vlahovic non sbaglia lo stop, cosa avresti scritto? Sì, ma vogliamo parlare del «miracolo» di Bremer su Thuram? L’Inter ha afferrato la partita per la gola, la Juventus ha sistemato il canonico pullman, dal quale usciva di rado, alla ricerca di un Yildiz non perduto, ma dimenticato. Come spesso succede, il destino ha scelto un periodo di relativa calma per infliggere la pugnalata fatale: spioventino di Barella, corpo a corpo tra Thuram e Gatti, do di petto dello stopper.

Se il primo tempo è stato noioso, il secondo è stato più mosso, più equilibrato. Costretto a recuperare, Allegri attacca. Non con procedure capaci di strappare il tifoso dal sofà, se non in un paio di casi, ma attacca. E cambia. Persino Alcaraz, agli sgoccioli. E addirittura Miretti. Naturalmente, Chiesa: un po’ spalla del serbo, un po’ ala, ombra del miglior sé stesso. Una valigia dimenticata in deposito. La copertina se l’erano presa Martinez e Vlahovic: il film, in compenso, è stato di altri. Di Sommer non rammento un intervento, al di là dei rischi che le mischie seminano, comunque. Più 4 con un’Atalanta in meno: lo scudetto ha un indirizzo. Imploso il Napoli, quello noto.